L’ESAURIMENTO NERVOSO DEL FARMACISTA. ECCO IL MOTIVO PER CUI ALCUNI TITOLARI VENDONO

C’è una motivazione che non si legge nei report, che non emerge nei convegni, che non si racconta nelle cessioni. È silenziosa, eppure sta dietro tante saracinesche abbassate, dietro a tanti “Vendesi farmacia”.

Non è solo perché non ci sono eredi. Non è solo per noia, incapacità o per il sogno infranto della “farmacia dei servizi”. È qualcosa di più profondo, più umano. È l’esaurimento.

Il titolare si spegne. Non perché non ci crede più. Ma perché, a un certo punto, non ce la fa più.

PERCHÉ LO AVETE TRASFORMATO COSÌ?

Quel farmacista che aveva scelto questa strada con passione — per la galenica, per la chimica, per stare accanto ai medici e ai pazienti — oggi si trova a rincorrere margini risicati, a dover vendere spazzolini più che consigliare cure, a fare conti più che ascolto. Non per avidità. Ma per necessità. Per sopravvivere. Perché ciò che rimane da una ricetta serve a malapena a pagare le bollette.

E INTANTO LA BUROCRAZIA CRESCE. Ogni giorno un nuovo foglio, una nuova firma, un nuovo obbligo. Ogni giorno un metro in più di distanza da ciò per cui si era partiti. La farmacia non è più quel luogo di cura, ma un punto vendita dove i titolari, prima di tutto, devono imparare a resistere. E poi, se resta energia, a curare.

IL PROBLEMA È CULTURALE, PRIMA ANCORA CHE ECONOMICO. È il modo in cui si guarda alla farmacia, come a un centro di costo da controllare, e non come presidio da valorizzare. È il modo in cui si colpevolizza il farmacista quando cerca nuove strade per far quadrare i conti, come se fare impresa significasse rinunciare alla propria identità professionale.

Chi oggi vende, non è sempre un imprenditore che ha sbagliato. È spesso un professionista che ha dato tutto. Che ha sopportato, reinventato, adattato. Che ha resistito al Covid, ha fatto tamponi e vaccini quando tutti erano chiusi in casa. Non dimentichiamocelo.

QUANDO I MEDICI ERANO SPARITI, I FARMACISTI C’ERANO. Quando i laboratori erano introvabili, i farmacisti c’erano. Quando lo Stato arrancava, le farmacie reggevano. Nessuno si è chiesto in che stato emotivo e psicologico fossero quei titolari che, giorno dopo giorno, garantivano il minimo di normalità a milioni di italiani.

E adesso? Adesso che la finanza bussa con valigie piene di soldi, adesso che il mercato delle farmacie fa gola ai fondi internazionali, adesso che tutto sembra comprare e vendere, chiediamoci: ma chi ha tenuto in piedi il sistema? Chi si è fatto camaleonte per il bene dei pazienti?

Il farmacista.

Il vero presidio sanitario territoriale.

ESSERE CAMALEONTICI NON È STATO UN DIFETTO. È stata una qualità salvifica. Nel momento più buio, quando tutti abbassavano la serranda, il farmacista ha tenuto la luce accesa. Perché dietro quella vetrina c’era la vita quotidiana, c’era il consiglio, il supporto, il conforto. C’era il servizio.

Oggi lo si accusa di essere diventato un commerciante. Ma è il sistema che l’ha costretto a cambiare pelle. E l’ha fatto per non morire. La domanda giusta non è se la farmacia sia ancora un luogo di cura. Ma se la stiamo ancora mettendo nelle condizioni di esserlo.

Tuteliamo questa figura preziosa. Proteggiamo la sua identità. Offriamogli strumenti, soluzioni, supporto. Perché se si spegne lui, si spegne un pezzo di sanità. E non possiamo permettercelo.